Leader lungimiranti cercasi - È finito il tempo dei temi identitari, serve un’agenda economica europea
Bruxelles deve imparare a reagire all’aggressività russa e cinese. Le sfide dei prossimi decenni richiedono la presenza di veri statisti, che sappiamo indirizzare con fermezza la politica comunitaria in materia monetaria ed energetica
Le elezioni europee hanno fatto emergere alcuni grandi e forse nuovi problemi (voto in Francia, carenza di leadership diffusa) senza risolvere nessuno dei grandi temi che sono di portata generazionale per l’Europa. La cifra comune è l’assenza di veri statisti e, all’opposto, la crescita elettorale di populisti e demagoghi che determinano una specie di blocco totale nell’affrontare le sfide che ci attendono, trasformando la contesa politica in una sfida al ribasso.
Siamo di fronte a una serie di temi cosiddetti identitari che magari catturano l’attenzione dei media e fanno notizia di breve termine, ma che pochissimo hanno a che vedere con la società in cui vivremo tra dieci anni, le cui basi si mettono invece oggi in un momento di grandissima transizione e spostamento di potere geopolitico.
I fatti nuovi che non vengono affrontati sono numerosi:
- La necessità di difendersi dall’aggressività militare della Russia (e della Cina in prospettiva), che non sono disponibili allo status quo di dominio economico dell’Occidente e utilizzano il potere militare e il deterrente atomico per aumentare la propria sfera di influenza. Ne discende, anche per effetto della sciagurata dottrina trumpiana, la necessità di spendere risorse maggiori sulla difesa del continente direttamente minacciato dalla Russia, che è peraltro confinante, aggressiva e guidata da un dittatore senza scrupoli e fortemente nazionalista.
- La crisi demografica che inizia a fare sentire i suoi effetti con un impatto negativo sull’economia, una forte e crescente pressione al rialzo dei salari, e la necessità di affrontare inevitabili spinte migratorie senza avere gli strumenti necessari per l’integrazione sociale. La vicinanza geografica dell’Africa, unico continente con pressione demografica ancora esplosiva, rende il tutto ancora più complicato.
- Il cambiamento climatico (le cui portata è ancora da definire) e la spinta alla transizione verde comportano un costo abnorme e una disparità di competitività con sistemi Paese (Cina e India soprattutto) che in larga misura determinano l’impatto complessivo delle emissioni sul pianeta, ma che non si accollano, se non in minima misura, i costi della transizione ecologica. Per contro, l’Europa spinta da movimenti politici senza alcuna capacità di visione, ma solo da modesto populismo identitario, sopporta costi giganteschi, con risultati del tutto trascurabili in ottica globale.
- L’impatto dell’intelligenza artificiale, ancora poco chiaro per tempistica di realizzazione e portata, può trasformare in modo duraturo le modalità di lavoro, il mix delle competenze necessarie e in generale tutto il mondo delle imprese. Gli Stati Uniti sono enormemente avvantaggiati per le risorse che le “magnificent seven” (Google, Apple, Nvidia, Microsoft, Tesla, Meta, Amazon) hanno accumulato, e quindi stanno investendo, e si rischia di essere colonizzati economicamente sulla base di investimenti finanziari che già oggi non sembrano alla portata del sistema Paese Europa.
- In generale, il riflusso della globalizzazione, conseguenza delle due guerre in corso (Ucraina e Medio Oriente), ha un impatto sproporzionatamente alto sull’Europa, che ha goduto per anni dell’accesso a esportazioni sostanzialmente libere e che si trova ad affrontare invece in modo durissimo un mondo dove forse le materie prime saranno usate per scopi geopolitici (il gas di Putin nel 2022) e dove forse i rapporti di libero scambio saranno sconfessati alternativamente da sussidi enormi (le auto elettriche cinesi ma anche i chips americani) o alternativamente da dazi insostenibili. L’Europa, che ha il massimo grado di apertura all’import/export, è destinata a pagare un elevato prezzo di inflazione o minore crescita (o recessione) a queste dinamiche ormai evidenti.
A fronte di questi problemi, davvero da fare venire i brividi, ci troviamo a discutere i raggruppamenti dei sovranisti, la leadership di Ursula von der Leyen, i posti nel governo europeo secondo un manuale Cencelli di sapore stantio, la posizione e i veti di un Paese come l’Ungheria che ha il Pil inferiore a quello del Veneto, e una serie di altre amenità di pochissimo impatto, quali le dimissioni di Enrico Letta da Sciences Po o il posto di Raffaele Fitto nella Commissione europea.
La crisi è conclamata quando mancano in tutta Europa statisti e politici di livello, mentre nei Paesi più grandi e trainanti c’è un presidente semi disperato (Emmanuel Macron) che convoca le elezioni generali, ben sapendo di perdere, ma nella speranza di sfruttare il sistema elettorale per bloccare i sovranisti; un leader azzoppato e senza alcun seguito (Olaf Scholz) che, dopo avere rallentato l’aiuto all’Ucraina per oltre un anno, non sa più cosa fare se non aspettare la fine di un ignominioso mandato di governo in cui ha rallentato e azzoppato l’intera economia tedesca come non si vedeva da decenni; una serie di leader minori (Belgio, Olanda, Spagna) con maggioranze raffazzonate o labili che non contribuiscono a creare la possibilità di discutere una seria agenda di riforme e di sviluppo.
Meglio non stanno, anzi direi che stanno peggio: il Regno Unito dove riemerge dal nulla Nigel Farage e viene accreditato di un venti per cento di consenso nonostante abbia mentito in occasione del peggiore errore di valutazione della storia con la Brexit; negli Stati Uniti, Trump ha buone probabilità di essere eletto nonostante la condanna in un processo e le imputazioni in numerosi altri, ma è chiaramente inadatto per carattere, onestà e senso dello Stato a guidare la più grande democrazia del mondo.
Paradossalmente (rispetto al passato almeno, non certo per demeriti strutturali), l’Italia esprime forse il maggiore statista della nostra epoca nella persona di Mario Draghi, e un governo Meloni che dimostra (contro ogni previsione dell’opposizione) un ancoraggio europeista, un discreto pragmatismo e la capacità di portare avanti alcune riforme lungamente attese (la riforma giudiziaria e il migliorabile premierato). Tutto ciò nonostante l’azione continua di disturbo dell’alleato Matteo Salvini che non perde occasione per danneggiare la propria base elettorale in ogni modo immaginabile (dal ponte di Messina, alla grottesca autonomia, alla versione sbiadita del nazionalismo de noantri di Roberto Vannacci).
Peraltro, in tutta Europa, ma soprattutto nell’opposizione di sinistra minoritaria ma sempre molto vocale e maggioritaria nei media, hanno ancora ampio eco temi identitari sicuramente interessanti, ma certo meno importanti delle sfide che ci attendono. I diritti delle minoranze Lgbtq+, il pacifismo in epoca di aggressione esterna, lo ius soli in epoca di immigrazione difficilissima da integrare, la transizione verde “a prescindere”, adesso il diritto alla casa (di proprietà o espropriata non si distingua troppo), il diritto allo Stato palestinese dopo un massacro premeditato di oltre millecinquecento israeliani, sono temi tutti probabilmente giusti o seri, ma hanno il grave difetto di distogliere l’attenzione e il focus dagli altri temi che a mio avviso sono drammaticamente più rilevanti e urgenti.
La sindrome di “sì ma anche” è spesso associata alla decadenza di un sistema sociale che non sa più riconoscere l’istinto alla sopravvivenza ancorché gravemente minacciata, proprio perché, dopo tanti anni di benessere considera acquisite conquiste che invece sono gravemente a rischio e si concentra su temi appunto identitari e non di sopravvivenza.
Riflettiamo semplicemente quanto ognuno di questi temi citati sia di interesse nei due sistemi Paese (Russia e Cina) che per motivi diversi sono aggressivi nei confronti dell’Occidente, e dopo avere riflettuto brevemente su quanto il partito comunista cinese sia attento a Lgbtq+, ius soli, immigrazione, transizione verde, pacifismo e altre “battaglie identitarie”, chiediamoci se abbiamo davvero le risorse per resistere alla minaccia chiarissima che ci viene dall’esterno se scegliamo di concentrare le nostre migliori risorse su questi temi e non su altro.
Si obietterà che non sono in contraddizione, ma invece io penso che ogni afflato riformatore o di cambiamento abbia per sua natura un’intrinseca difficoltà realizzativa, come ben sanno i migliori capi azienda. E disperdere risorse, attenzione e volontà politica su questi temi può forse raccogliere voti, ma riduce la prosperità delle prossime generazioni. Saremo di certo più armocromatici, ma anche terribilmente più poveri e con meno risorse da dedicare alla difesa dei valori fondamentali della nostra società, che sono le libertà personali di pensiero, espressione individuale, di impresa, di associazione e di voto.
Le scelte vere e importanti invece sono altre e diverse. Noi abbiamo risorse limitate, come ogni sistema sociale, e dobbiamo scegliere a quali temi vogliamo dedicarle. Le grandi categorie sono il welfare che con la nostra demografia è una bomba a orologeria già innescata, la difesa dove forse non basterà il famoso due per cento del pil, l’istruzione che sarà sconvolta dall’impatto dell’intelligenza artificiale, lo sviluppo economico dove dovremo tornare a difendere i nostri vantaggi competitivi ben sapendo che gli “altri” fanno lo stesso da anni e con grande spregiudicatezza, e infine la coesione sociale.
Trascurando per un attimo l’ultimo problema, che ha più a che vedere con una riflessione valoriale e filosofica della coesione sociale in un’epoca di informazione (e disinformazione) rapidissima veicolata dai social media, a me pare che dovremo necessariamente porci il problema prioritario dello sviluppo economico per rendere disponibili le risorse necessariamente crescenti per il welfare in un’epoca di declino demografico, di aumento delle spese della difesa e di miglioramento dell’istruzione collettiva.
L’istruzione diventa il vero investimento di lungo termine, visto che il patrimonio più importante di cui disponiamo sono i nostri figli, peraltro sempre meno, e quindi forse meritevoli di una qualità e modernità dell’istruzione che possa fare da base alle crescenti necessità di innovazione della nostra società. L’istruzione quindi intesa non solo come istruzione dei giovani, ma come continuo, faticoso e necessario miglioramento delle capacità professionali di chi già lavora, con un processo di adeguamento continuo alle nuove sfide, in cui peraltro proprio l’Italia con le sue aziende di media dimensione ha dimostrato di sapere meglio reagire alle sfide degli ultimi anni.
Per lo sviluppo economico, l’agenda dell’Europa (e dei singoli Paesi, visto che realisticamente l’Europa intesa come istituzioni politiche sarà ancora relativamente meno importante senza una profonda revisione degli assetti istituzionali di cui non si vede nemmeno l’inizio) nei prossimi anni si intravedono alcune priorità:
L’armonizzazione dei sistemi fiscali e l’uso della tassazione come strumento competitivo integrato. Alzare le tasse su persone e imprese in modo non coordinato serve solo a favorire chi non lo fa e a distorcere la concorrenza. L’esempio dell’Irlanda, e di altri piccoli sistemi Paese (Lussemburgo) che hanno beneficiato di questa concorrenza sleale, dimostra come si dovrebbe spingere per rafforzare l’omogeneità dei sistemi fiscali cercando di riscuotere tasse da chi prospera sul territorio europeo raccogliendo consumi molto cospicui senza versare una fair share del profitto generato (le magnificent seven per cominciare).
La difesa e lo sviluppo delle filiere industriali su cui abbiamo vantaggio competitivo e non siamo attaccabili. Non si vede perché la licenza di un software Microsoft, che ormai è pressoché una tassa necessaria, non possa essere equiparabile alla visita di Venezia, Roma o Parigi. Siamo il luogo al mondo con la maggiore concentrazione di storia, patrimonio artistico, bellezza e arte del vivere. Ebbene cerchiamo di svilupparlo, renderlo attrattivo e farcelo pagare carissimo da chi ne vuole usufruire. In Italia l’offerta turistica è arretrata, molto migliorabile e andrebbe fortemente incentivata a tutti i livelli e su tutti i segmenti (dal lusso all’offerta di base) proprio per generare nel tempo tutte le risorse anche fiscali di cui abbiamo bisogno. E pazienza se questo significa edificare qualche centinaio di nuovi alberghi di lusso, che peraltro significa attrarre cinesi, indiani e americani che non hanno nessuno scrupolo nel lucrare il massimo dalle loro filiere ormai inattaccabili. Il turismo, ma anche la moda e il lusso in tutte le sue accezioni (tessile abbigliamento, casa, arte), la filiera agroalimentare sono i nostri patrimoni più grandi. Nessuno li può toccare perché vengono dai nostri tremila anni di storia (gli stessi che ci stanno rallentando nell’innovazione peraltro). Se non li sfruttiamo e li difendiamo a qualsiasi costo saremo pronti a soccombere senza nemmeno “averci provato”.
L’utilizzo della tecnologia e l’istruzione diffusa come elemento di sburocratizzazione e di produttività dei servizi. Siamo molto indietro rispetto a chi in altri sistemi (Usa o Cina) si è mosso privo dei nostri lacci e lacciuoli. Ma in Europa abbiamo probabilmente la popolazione mediamente più educata ed evoluta nel vivere sociale. Forse potremmo beneficiare di una grande iniziativa, questo sì a livello europeo, di formazione di una classe amministrativa di livello unico al mondo. Una scuola di pubblica amministrazione a cui attingere, in ogni Paese e in modo “apolitico”, quei funzionari, insegnati, medici che, pagati essenzialmente dall’amministrazione pubblica, possono dare una crescita di produttività straordinaria che nessuna azienda privata può dare. Abbiamo le risorse per farlo, serve capacità di attuazione e il riconoscere che è utile se non fondamentale nei prossimi dieci anni.
Infine, una politica energetica davvero comune e integrata. Dopo svariate centinaia di miliardi di investimenti “verdi” (tra cui cento miliardi sciagurati e gettati alle ortiche dai provvedimenti del peggior Governo della storia Europea, cioè il secondo Governo Conte con l’incredibile, tragico e quasi ridicolo “ bonus centodieci per cento”) non è accettabile che l’energia costi in Italia il doppio che in Spagna e il triplo che negli Stati Uniti. L’Economist in un recente studio faceva notare come in Europa le fonti rinnovabili siano già quasi al cinquanta per cento del fabbisogno, ma che la miopia degli interessi nazionali sia volta ancora costosamente a ridurre il vantaggio competitivo che deriverebbe da una completa integrazione energetica europea. Serve volontà politica e priorità, abbiamo speso molto ed è ora di averne i frutti meritati, depotenziando Russia e Medio Oriente che ci hanno su questo violentemente taglieggiato negli ultimi quarant’anni.
Difesa, istruzione, energia e settori strategici. Queste sono le vere priorità su cui discutere. Serve un assetto istituzionale degno delle sfide, non siamo condannati a essere una società decadente di massa. Possiamo e dobbiamo diventare il luogo migliore dove vivere sul pianeta, per democrazia, libertà, istruzione, cultura e bellezza.
E la prossima volta, forse più che in questa tornata elettorale, troveremo e voteremo qualcuno che avrà portato avanti prioritariamente questi temi.
Questo articolo è stato preso da: https://www.linkiesta.it/2024/06/priorita-economiche-europee/